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FUGA
DA LIVORNO
Venerdì 28 maggio 1943, ore 10:55 - Sfollati a Villa Maurogordato di Aldo Silvestri I bombardamenti distruggono la città Scoppia l’inferno su Livorno. Tonnellate di bombe piovono sulla città dagli aerei americani. E’ questo l’anno che cambia l’Italia, come è scritto in un libro. E Livorno scompare in gran parte. Alle 10 di quel 28 maggio suona l’ennesimo allarme aereo. La gente corre ma senza convinzione in quelli che dovevano essere dei rifugi, ovvero scantinati sotto palazzi che al massimo potevano proteggere dalle schegge della contraerea o dai mitragliamenti. Si crede che ancora una volta sia un falso allarme o che si tratti dell’annunciata esercitazione prevista proprio per quel giorno a quell’ora. Invece stavolta è tutto vero. La città viene in gran parte distrutta, lo sarà totalmente nei 126 bombardamenti che, nel corso dei mesi, seguiranno quello del 28 maggio. L’Anic è incendiata ed il cielo si tinge di nero del fumo della raffineria colpita. Il porto è devastato ed in serata salta in aria, malgrado mille sforzi, una nave carica di esplosivo. Quando i bombardieri se ne vanno la popolazione si riversa in strada: inizia la triste storia dello sfollamento nelle campagne più vicine. La nostra famiglia, cinque persone, trova rifugio a Monterotondo nella villa Maurogordato o per meglio dire in una stanza vicina alla chiesina della villa. Dal primo giugno la villa viene occupata dal Comune che l’aveva Presa in consegna dopo che il conte Rodocanacchi, proprietario, era emigrato in Grecia. Il Comune mette su una mensa per i dipendenti che arrivano sul posto dai vari luoghi di sfollamento. Si mangia quel che c’è, un po’ di minestra calda e a volte un piatto di patate o di altre verdure. Intanto le vicende interne alla nazione e sui campi di battaglia vanno sempre in peggio. Dalla caduta del fascismo alla Repubblica Sociale Il 25 luglio cade il fascismo e Mussolini, arrestato, viene sostituito dal maresciallo Badoglio. Ma la guerra continua. L’8 settembre viene firmato l’armistizio e da questo momento è veramente il caos, in Italia e nella villa dove sino a quel momento trascorrevamo, compatibilmente col periodo di guerra, una vita se non altro serena. Dal 9 settembre cominciano gli assalti della popolazione ai depositi militari (Stillo: Baracche di Collinaia). In centro vengono sfondati i negozi. Ricordo “Mandosio” negozio di calzature di via Grande con le porte scardinate e la scia di scarpe perse da chi depredava, lunga fino al porto. Poi arrivano i tedeschi che iniziano a presidiare i punti strategici della città ed a sparare su tutti quelli che creavano problemi. Il 28 settembre, dopo essere stato liberato dai tedeschi, Mussolini proclama la nascita della Repubblica Sociale. Contemporaneamente la villa Maurogordato dove ha sede il Comune, viene occupata dai re pubblichini comandati dal Commissario prefettizio che spadroneggia in tutta la provincia con la protezione dei tedeschi. Anche i militi della Guardia nazionale repubblicana vengono a mensa. Noi sfollati dobbiamo abituarci alle loro, diciamo con un eufemismo, spavalderie. Tipo fare il tiro al bersaglio sulle aquile in marmo e altre statue della villa. Mio padre, ultimo dei vigili urbani rimasti, un giorno protesta perché ci sono di bambini ed il “giochino” crea pericolo: lo considerano ben poco e, per la verità, gli portato rispetto proprio perché è in divisa. Un’altra volta, sempre per fare il tiro a segno, con una raffica di mitra buttano giù un camino e per poco ci scappa il morto: chiesero scusa. Ma poi quando, sempre in quelle settimane, il servizio mensa è in ritardo, per protesta un gerarca scaglia una bomba a mano contro la baracca della cucina: anche lì la fortuna aiuta i presenti e nessuno rimane ferito. Un giorno però è tragedia. Due di quei militi si siedono al tavolo della mensa, in mezzo a tutti noi. Iniziano a discutere. Poi, ad un tratto, uno estrae la pistola e, praticamente a bruciapelo, spara in fronte all’altro che muore sul colpo. L’assassino scappa. C’è un’inchiesta, per quello che era possibile fare in quei tristi giorni di caos totale ma non porta a niente. Dopo una settimana l’omicida torna da solo. Si siede tranquillamente a tavola, mangia la sua minestra poi, con altrettanta flemma tira fuori la rivoltella e si spara un colpo in testa: morto anche lui. Nessuno di noi sfollati ha mai saputo o voluto sapere qualcosa di quella storia. Del resto la morte era all’ordine del giorno. In quel periodo nella villa muore un’altra persona, un impiegato comunale che durante uno scontro tra gli aerei americani e le batterie da 88 tedesche che erano dietro la villa, vuole uscire dai sotterranei dove ci nascondevamo in cerca di protezione perché soffre di claustrofobia. Una scheggia gli frantuma la testa: lo soccorriamoquando finisce il bombardamento. Ma non c’è nulla da fare. Poi arrivano gli americani grazie all’intervento del Comitato di Liberazione Nazionale, nascosto nelle nostre case di sfollati alla furia tedesca e repubblichina. I dirigenti livornesi con mio padre ed io che facciamo da guida nei boschi di Monterotondo, raggiungono le truppe alleate ai Cinque Lecci e comunicano che la strada è finalmente sgombra. La villa viene occupata ma al Comune ed agli sfollati è concesso di restare. Soldati, "segnorine" sbornie e scazzottate I soldati si comportano molto bene e, al sabato organizzano feste nelle baracche che hanno costruito nel grande parco. Ci sono soldati e “signorine“, scazzottate e risse. Una sera uno tira fuori il coltello e l’altro la pistola: sono entrambi ubriachi e si feriscono solo lievemente. Ma la loro sorte è segnata perché vengono mandati per punizione a combattere nel Pacifico: pochi mesi dopo abbiamo saputo che sono morti entrambi in combattimento. Tempi brutti, terribili. Anch’io mi sono trovato coinvolto in un brutto episodio. Una sera da una delle baracche viene fuori un soldato di colore con in braccio un neonato che strilla, un bimbo avuto da una “signorina” che glielo aveva portato sperando di essere sposata. Il nero, ubriaco fradicio, barcolla fino alla fontana dicendo che deve dare da bere al bimbo. Noi siamo nel giardino a prendere un po’ di fresco. Mia madre gli grida che in quel modo avrebbe ucciso il piccolo. E lui le si rivolta contro, buttando il neonato per terra. A quel punto intervengo e dico di farla finita. Tra l’altro conosco il soldato, un bravo ragazzo quando non beve. Non mi riconosce e sta per balzarmi addosso. Gli mostro il coltello che, come ognuno di noi in quei tempi, avevo in tasca. Lui, per fortuna, si prende paura e se ne va brontolando dopo aver raccolto il bambino. Il giorno dopo, quando è sobrio, ricorda solo che l’ho minacciato col coltello. E fin quando non rimpatria non mi rivolge più la parola. Destino vuole che l’ultima vittima per morte violenta della villa sia uno dei suoi vecchi proprietari, il conte Maurogordato, ormai solo, in miseria ed incapace di adattarsi a quel nuovo mondo che sta nascendo, si spara un colpo di pistola. |
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Edizione
IL QUINTO MORO
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