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E’
un modo di dire un po’ demodé ma viene ancora
usato, specie dai livornesi più anziani. Per capirne
il significato bisogna comunque andare indietro nel tempo,
almeno a prima del 1958 quando con la legge Merlin vennero
chiuse le cosiddette case di tolleranza.
Ordunque a Livorno, città di porto, di “case”
ce ne sono sempre state parecchie, per tutti i gusti e tutte
le tasche. Qualcuno ricorda la dispendiosa madama Sitrì
ma i più non dimenticano le notti trascorse in via
dei Lavatoi e zone limitrofe. Nel primo locale si potevano
incontrare accademisti e persone di un certo livello. Negli
altri...no. Molto asettico il primo, sporchini gli altri
malgrado i frequenti controlli dell’ufficio d’igiene
ai quali però sfuggivano, ad esempio, i tanti profilattici
usati che venivano gettati dalle finestre e gallegiavano
perennemente nei sottostanti fossi. Specie nelle “case”
più misere, il pavimento non era certo rivestito
di mattonelle, abbastanza rare nelle abitazioni del centro.
Per terra c’erano i mattoni che, col passare continuo
di clienti si consumavano e diventavano sempre più
brutti. Così era nata una professione, quella di
colorare, ovviamente di rosso, quei mattoni consunti. Una
operazione che doveva essere ripetuta abbastanza di frequente,
vista la grande affluenza di signori in cerca di amore a
buon mercato. La professione, si fa per dire, era quella
di dare il rosso nel casino.
Un lavoro piuttosto umile che non richiedeva una particolare
specializzazione ma una certa cura sì: pena essere
presi a pedate dalla distinta tenutaria del locale e non
riscuotere una lira. Mandare dunque qualcuno “a dare
il rosso nel casino” significa esprimergli tutta la
nostra non stima ed il massimo del disprezzo. Dunque prima
di pronunciare la fatidica frase è bene pensarci
due volte. Soprattutto se chi destinatario dell’impropero
è di dimensioni... extra large.
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