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Un'estate sola
Teneva
un'uggia in petto, s'era messo a guardare le punte
dei cipressi che imbiancavano, i coppi di terracotta
ai lati del cancello, con i limoni intirizziti dal
freddo che si riempivano di neve, gli olivi contorti
e depressi come il suo umore. Aveva camminato su e
giù appoggiato alle grucce, ponderando l'assenza
di lei, cercando conforto nei suoi oggetti sparsi
per casa, nell'ordinata fila di volumi della sua libreria.
Aveva passato il dito sulla copertina dell'agenda
di cuoio in cui lei scriveva le sue poesie, fino allo
scorso ottobre, seduta sotto un olivo. Si era chiesto
perché non avesse preso con sé le sue
medicine, tutte le pillole che assumeva ogni giorno,
a ore stabilite, con meticolosa pazienza.
A mezzogiorno era arrivata la telefonata.
Quante volte gli aveva detto, prendendogli la mano
nocchiuta nella sua coperta di vene azzurrine, "quando
sarà, Roberto, non lo vivremo insieme".
Ma lui la interrompeva, cingeva con un braccio le
sue spalle curve, sentendo il tepore del corpo sotto
la lana del golfino. "Shsss, non parlare di queste
cose. Siamo insieme adesso, è questo che conta."
Era accaduto tutto in fretta, all'inizio dell'estate.
Sedevano nel viale dei cipressi, sulla panca di pietra,
era un giugno fresco e lei si riparava dal vento con
una sciarpa leggera. "Perché no, Roberto?",
gli aveva chiesto, sistemandogli sul naso, con gesto
materno, le lenti che erano scivolate giù.
Lui aveva scosso la testa: "Mia figlia non lo
accetterà, minaccia di non farmi più
vedere Matteo."
Lei aveva stretto le palpebre per difendersi dalla
luce del lungo pomeriggio, poi aveva sorriso ed una
rete di zampe di gallina si era formata vicino agli
occhi. "Patrizia capirà. Dalle tempo,
Roberto. E tuo nipote ti vuole molto bene."
Lui quasi non ascoltava, osservava il morbido cedimento
nel volto ovale, le mani da pianista macchiate di
lentiggini senili, i capelli grigi ancora morbidi.
Gli era parsa bellissima ed era arrossito. "Alla
nostra età", aveva protestato debolmente,
"e nelle mie condizioni, poi. Sono un invalido."
Aveva afferrato la gruccia e l'aveva agitata in direzione
di Marta, come per difendersi dal sentimento che lo
travolgeva.
Ma lei aveva allontanato la gruccia, gli aveva stretto
gli omeri con entrambe le mani. "E le mie condizioni,
allora? Sai quanto mi resta da vivere, ma voglio fare
questa cosa con te". All'improvviso si era illuminata,
gli occhi scuri maliziosi come quelli d'una ragazzina
che sta progettando una marachella: "Facciamolo,
Roberto!", aveva esclamato, "vieni a vivere
qui, prima che sia tardi."
Lui aveva fatto una carezza al nipote Matteo: "Nonno,
ti verrà a trovare tutti i giorni", aveva
promesso.
"Scordatelo!" Patrizia si era intromessa,
acida, aveva trascinato via il bambino imbronciato.
"Che vergogna, la mamma si rivolta nella tomba.
Sei un povero vecchio patetico, se lasci questa casa,
non ci torni più."
Si era trasferito da Marta due giorni dopo, lasciando
Patrizia e suo marito a litigare da soli.
Era stata una buona estate, un'estate di passeggiate
nel parco, appeso al braccio di Marta, a parlare di
poesia, a progettare visite agli Uffizi ed a leggere
i programmi dei concerti che animavano le sere fiorentine.
Discorrevano del passato perché il futuro non
c'era.
Lui non parlava volentieri di sua moglie, ma ne ricordava
la voce stridula che, negli ultimi tempi, inveiva
persino contro le sue gambe impedite. "Mia moglie
non amava i concerti", si limitava a dire, poi
cambiava argomento. Marta gli stringeva appena il
braccio, faceva in modo che il corpo di lui si appoggiasse
ancor più alla sua spalla. Cominciava a raccontare
di sua madre, scesa da quelle stesse colline per venire
a servizio in città, del fratello emigrato
in America, di un amore di gioventù che le
regalava ogni giorno una rosa gialla. "La vecchiaia
mi ha colto di sorpresa", diceva, "non so
come ho passato tutti questi anni. Dentro mi sento
quella di allora, la ragazza con la rosa gialla, ma
non lo sono." Ed ecco la sua risata giovanile,
i capelli un po' spettinati dalla brezza della sera.
Della malattia non parlavano mai, neanche quando i
dolori le logoravano le ossa. Certe notti, però,
Roberto si accorgeva che era sveglia, che fissava
il soffitto. Allora, dolcemente, le prendeva una mano
e la stringeva fra le sue, senza parlare.
Era arrivato l'autunno, un novembre spazzato dal vento
che aveva portato via tutte le foglie e riempito di
spifferi il casale. I dolori di Marta si erano intensificati,
aveva dovuto raddoppiare la dose delle medicine e
passare il tempo davanti al camino, con un libro in
grembo.
Poi c'era stata l'improvvisa partenza, senza una spiegazione,
senza una parola. Si erano abbracciati, il taxi che
aspettava fuori dal cancello della villa. "Riguardati,
Roberto", aveva detto lei, "io devo andare,
ma il mio cuore resta con te, in questa casa."
Quel momento, adesso Roberto comprendeva, lei non
lo voleva condividere con nessuno, nemmeno con lui.
Cercò il numero e telefonò negli Stati
Uniti al fratello di lei. L'uomo gli disse che sarebbe
arrivato per il funerale e si sarebbe fermato il tempo
necessario per vendere la villa. Si fecero le condoglianze,
Roberto ringraziò e riattaccò. Chiamò
il fioraio e ordinò un mazzo di rose gialle.
Poi fece il numero della Casa di Riposo. "Sono
Roberto Farnesi, avete una stanza per me?"
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