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La terza notte
La luce è gialla, abbastanza forte da tenermi
sveglia, non abbastanza perché certi rumori
non mi facciano paura, come questa vecchia qui accanto
che respira con la gola, almeno la facesse finita.
Non sto peggio, il dolore è lo stesso di tre
giorni fa, quando il professore ha detto che morirò,
mi fa solo più male il braccio della flebo.
Tre giorni che lo so, e tre notti.
I miei suoceri si ostinano a parlare di quando Miria
sarà guarita, quando Miria tornerà in
ufficio, quando Miria porterà la bambina a
scuola. E' per via che dopo l'infarto al vecchio tante
cose vengono risparmiate.
Luigi tre giorni fa ha pianto, poi ha detto che mi
daranno la morfina quando non ce la farò più
ed ha smesso di piangere. E' sollevato, ha diviso
il suo dolore con me, si è tolto un peso, lui
ha sempre avuto bisogno di appoggiarsi a qualcuno.
Mia madre, lei, ha persino ripreso a rimproverarmi,
"devi finire tutta la carne", ha detto,
"quanto credi di andare avanti con il gelato
e basta?"
Se dormo, sogno ancora quel loculo di cemento che
si chiude, allora è meglio se ora vado nel
bagno. Trascino il sostegno della flebo in fondo al
corridoio, mentre al piano di sopra, reparto maternità,
le mamme vanno ad allattare i neonati. Cinque anni
fa c'ero anch'io, con questa stessa vestaglia addosso,
quando è nata la bimba.
Faccio pipì, mi sciacquo la faccia, e mi guardo
allo specchio. I capelli non li ho più, la
testa è come un uovo
di carne. Devo ricordarmi dell'uovo di Pasqua per
la bimba, Luigi magari non ci pensa, ha tante cose
per la mente. L'assicurazione della macchina, il passaggio
di proprietà, la casa intestata a tutti e due.
"Ci vogliono soldi per morire, non sai quanti,
Miria", mi ha detto, poi si è morso le
labbra.
Due infermiere grasse, appoggiate allo stipite della
porta, parlano di calze autoreggenti. Mi piacerebbe
comprarne un paio, se avessi ancora tempo.
Piacerebbero a Luigi, me le sfilerebbe piano, come
fanno al cinema, come nella scena del Laureato.
Al funerale sarò distesa sull'imbottitura col
tulle che mi vela la faccia, una specie di bomboniera,
come la zia Carmelina, quella a volta che siamo andati
tutti giù a San Vito lo Capo, e c'era così
tanta gente.
Torno nella stanza, la vecchia ora russa e muove le
mani davanti al viso, come se scacciasse gli insetti,
chissà che vede. Chissà cosa si vede,
prima, dopo, durante.
Carrelli vengono trascinati nel corridoio, sento odore
di caffè d'orzo. Suor Francesca attraversa
la corsia ed apre il finestrone, fa entrare la luce.
Ce l'ho fatta, la terza notte è passata.
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