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L'inchiesta
Si sparse la voce che stavano arrivando quelli dell'inchiesta
e subito la strada principale, la piazza, la chiesa
e la bottega di mastro Scoldig, formicolarono di gente
che entrava ed usciva, che si raggruppava, che indugiava
sugli usci, come a dover dire ancora un'ultima cosa,
come ad attendere un ulteriore ragguaglio. Mastro
Scoldig stesso si recò fino all'isba della
Baba Iaga, ma non ne fece parola ad anima viva. Ce
n'erano state tante d'inchieste, pensava rimasticando
le poche parole attinte a costo di due galline dalla
decrepita saggezza della Baba; Varbad di Valgelata
era stata raggiunta da un'infinità di funzionari
governativi, che avevano sfidato i rigori dell'inverno
boreale, le zanne dei lupi, le buie gole del Passo
del Vento, pur di far domande alla popolazione.
Chiedevano di tutto, dalla salute, ai raccolti, al
numero di lupi avvistati, alla gradazione annuale
della birra, e poi studiavano, catalogavano, tassavano.
Funzionari zelanti imperversavano in su ed in giù,
agitando cartellette che riflettevano la neve, che
catturavano la fiamma delle candele sui davanzali,
che assorbivano il riverbero dei caminetti, che brillavano
insieme ai fuochi degli gnomi, che illuminavano la
notte artica, le casupole fumose, il torrente algido
su cui le ragazzine disegnavano ragnatele di ghiaccio
con le lame dei pattini.
Ma un'inchiesta come quella che s'attendeva faceva
palpitare di paura il petto di mastro Scoldig il falegname.
Questa volta non s'andava ad indagare sul formaggio,
sul pane cotto a legna, sulle visite in chiesa, stavolta
i funzionari avrebbero chiesto ad ognuno, né
più né meno, se era felice. Erano queste
le voci incredibili giunte dai paesi dove l'inchiesta
era già arrivata.
Affrettando il passo giù per il sentiero, Mastro
Scoldig si grattò preoccupato la grossa testa
lanosa. La Baba Iaga non gli aveva saputo dire quanto
avrebbe pesato la quota di felicità del capofamiglia.
Lui, fra tronchi da segare e assi da piallare, a dire
il vero non s'era mai sentito né felice né
infelice, non s'era nemmeno mai fatto quella singolare
domanda.
Rincasando,
Solveig si annodò il fazzoletto sotto la gola
perché stava riprendendo a nevicare. Mastro
Scoldig il falegname non c'era, le avevano detto che
era uscito presto, che si era inerpicato su per il
sentiero della collina senza dire dove andava.
Era stato un giorno cupo, il sole non s'era dato neppure
la pena di levarsi, trattenendosi tutto il tempo a
sonnecchiare sul bordo dell'orizzonte, ed i lumi nelle
case erano rimasti sempre accesi. I primi fiocchi
le volteggiarono sul naso intirizzito e si sfarinarono
ai suoi piedi.
La slitta di Peer passò tintinnando. Un suono
malinconico, che indugiò nell'aria accompagnato
dal bramito delle renne, familiare come il suono della
propria voce.
Solveig camminò a testa bassa fino alla porta
di casa, senza mai guardare dentro le finestre illuminate,
senza ascoltare le risa, le voci dei bambini, le ninnananne
cantate dalle madri.
Era stata da Mastro Scoldig per rivendere la culla,
perché era di legno buono, con i soldi si poteva
comprare un po' di burro. La culla non serviva più,
il bambino era morto tre notti prima.
La moglie di mastro Scoldig aveva parlato dell'inchiesta,
ormai tutti non parlavano d'altro. Ma cosa avrebbe
detto lei, Solveig dalle lunghe trecce, come la chiamava
Ugric, cosa avrebbe mai potuto rispondere alle domande
del funzionario?
Adesso la slitta era nel cortile, il cugino Peer stava
già scaricando le fascine. Le chiese come stava,
le sorrise col fiato che si rapprendeva in nuvole
gelate attorno alla sua bocca.
La febbre che aveva ucciso il bambino, gli rispose
brusca, le aveva procurato una grande spossatezza,
come se qualcuno fosse aggrappato alle sue budella
e la spingesse giù. Poi entrò in casa,
rapida. La nonna aveva messo a scaldare la birra sulla
stufa ed ora rammendava una calza. La sua faccia era
una macchia d'ombre grinzose nell'angolo accanto al
fuoco. Ogni inverno s'avvicinava di più alla
stufa, s'ingobbiva fin quasi a fondersi col tubo fuligginoso,
fino ad entrare, seggiola e tutto, nel canto fra la
piastra rovente ed il muro, dove prima - Solveig l'avrebbe
giurato - non sarebbe stata neppure la spalliera della
seggiola. Sua nonna era fatta della stessa pasta degli
elfi, sfuggente e buia come loro.
Solveig la informò che quel che si doveva fare
era stato fatto, poi cominciò a pelare le rape.
Le calò nell'acqua insieme alla cipolla e alle
erbette e le salò con qualche lacrima segreta.
Curva sul paiolo, con la faccia contro il muro per
non farsi vedere dalla nonna, rifletté che
l'ultimo legame con suo marito se n'era andato tre
notti prima. Il figlio di Ugric era morto di febbre,
come morto era suo padre, quando la punta della lama
che stava forgiando gli si era conficcata nello stomaco.
L'aveva trovato lei, suo marito Ugric - Ugric il forte,
Ugric il fabbro - steso davanti al fuoco che ribolliva
nella fucina, col pezzo ancora da finire, con la vita
ancora tutta da vivere.
"Me ne vado, Solveig dalle lunghe trecce",
le aveva detto, chiamandola col nome datole un mattino
di disgelo, in cui era sceso dalle montagne carico
di arnesi, "me ne vado, ma tu hai ancora il nostro
bambino e così non ci lasciamo davvero."
Che cosa poteva rispondere lei alle domande incalzanti
del funzionario, ora che invero nulla di lui restava?
Peer
cominciò ad accatastare la legna accanto alla
stufa, guardando le mani di Solveig, sua cugina, bianche
e lisce anche dopo tanti lavori di casa. Erano mani
di fata, le stesse mani che arrotolavano le palle
di neve e gliele tiravano sul collo, quando la nonna
li prendeva tutti e due per le orecchie arrossate
dal vento e li riportava in casa a pedate.
C'era questa faccenda dell'inchiesta, di cui aveva
sentito parlare all'osteria, dove mastro Scoldig,
dopo tre boccali di birra, si era sporto verso di
lui e, all'orecchio, in tutta segretezza, gli aveva
confidato d'aver parlato con la Baba Iaga, per saperne
un po' di più su questa nuova tassa, ché
poi, alla fine, di questo si trattava, sempre di soldi,
e lui, povero falegname che aveva passato tutta la
vita in mezzo alla segatura, che cosa ne capiva della
felicità?
Poi era crollato sul tavolo e si era messo a russare.
Allora Peer si era affrettato a riprendere la strada
di casa, per quella smania che sempre a sera lo afferrava
di tornare da lei, di ritrovare la sua voce bassa
e dolce, il suo modo di voltare gli occhi dall'altra
parte quando lui la guardava, che pure questo di lei
gli piaceva.
Chissà se Solveig aveva sentito parlare dell'inchiesta?
Da quando il bambino era morto, non le si poteva rivolgere
nemmeno la parola per quanto era ombrosa.
Invece lui non stava più nella pelle al pensiero
che presto, a giorni addirittura, qualcuno, per la
prima volta in tutta la sua vita, gli avrebbe chiesto
se era felice.
"Peer, sei felice? Sei felice, Peer?"
Nessuno ti fa una domanda così, bella, diretta.
Non gliela aveva fatta mai Solveig, quando mugolava
nel soppalco abbrancata a quell'orso sceso dalle montagne
per rubarle il cuore che, se non ci fosse stato lui,
avrebbe potuto essere suo. Non glielo chiedeva la
nonna, cuor d'oro, sì, ma tutta persa nelle
sue ombre, con l'occhio distante, già avviato
sui sentieri d'un altro mondo. Non glielo chiedevano
gli amici mai, all'osteria o sulla strada, perché
ognuno aveva qualcosa da fare, gli affanni suoi, ed
a nessuno veniva in mente di farti una domanda così.
Ma finalmente ora qualcuno gliela avrebbe fatta la
domanda, e, dopo, avrebbe pure ascoltato la risposta,
non come quando la gente ti chiede come stai senza
aspettarsi che tu dica qualcosa. Il funzionario avrebbe
teso l'orecchio, avrebbe raccolto le sue parole, le
avrebbe annotate premurosamente, avrebbe riempito
di crocette le caselline del foglio e poi chissà,
altro che tassa, dall'inchiesta sarebbe uscita una
soluzione,
qualcosa di buono per tutti, te l'avrebbero mandata
davvero la felicità, magari per posta, o appesa
al collo ingioiellato di una renna.
Sei felice Peer, questo gli avrebbero chiesto e lui
non aspettava altro per rispondere che, diamine, no
che non era felice, non si ricordava nemmeno più
cosa fosse la felicità, dall'ultima volta che
lei gli aveva sorriso, che gli aveva tirato una palla
di neve con quelle sue mani di fata. Anche se c'era
un buon fuoco dalla nonna e la birra schiumava bollente
sul fuoco, non si poteva essere felici nella stessa
casa dove Solveig, la sua Solveig dagli occhi sempre
umidi, piangeva per un orso sceso dalle montagne.
Dal suo cantuccio d'ombra, gli occhi semiciechi della
nonna seguivano la zuppa che fumava sul fuoco e quella
sua nipote che la allungava con le lacrime. Non aveva
bisogno di cartelle fosforescenti per conoscere ciò
che avevano nel cuore i nipoti. Era vecchia e la madre
di sua madre aveva sangue elfo nelle vene.
Il figlio di Ugric, povera anima, ora danzava con
gli gnomi, misera fiammella di fuoco fatuo sulla palude,
ma questo a Solveig non andava detto, lei preferiva
credere in una nuova stella accesa nel cielo dal popolo
della foresta.
E come sciogliere il dolore di quegli altri occhi
fedeli,
come confortarli, come aiutarli a combattere gli spettri
di Ugric il fabbro e di suo figlio?
A giorni quelli dell'inchiesta sulla felicità
sarebbero arrivati in paese. Forse, con un po' di
fortuna, si sarebbero dimenticati di lei, vecchio
cantuccio d'aria senza forme, mucchio d'ossa e cenci.
O, magari, ce l'avrebbe fatta morire prima che la
scovassero.
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