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Io
e te
Omozigote gemella mia che hai vent'anni di meno, parli
milanese meneghino mentre io sto qua con l'accento
de Roma pesante, sei vissuta nell'azoto liquido, ma
non sei abituata al freddo, lo odi quanto me. Quando
ti hanno scongelata non sono venuti a dirmelo, eppure
ti ho sentita, sei una parte di me. Sei me. Tu ed
io siamo uguali, ora che ti vedo, che sei qui davanti,
lo so. Tocco la tua mano ed è la mia mano di
vent'anni fa, piccola, con unghie corte, piccoli peli
dorati sul dorso. Oggi le mie unghie sono rigate,
mio marito dice che uso troppa candeggina. Tu hai
ancora dita rosee da studentessa. I tuoi genitori
ti tengono nella bambagia, vivi nell'oro. Si vede
dalla borsa fighetta, dagli occhiali firmati. Sei
contenta, mi stai dicendo, cresciuta in una camera
piena di bambole, di giocattoli che un po' facevano
compagnia e un po' soffocavano. A te è stato
dato quello che a me non era concesso, tu fai tardi
la sera, tu spinelli e bevi fino a vomitare.
Due embrioni nati insieme, ci diciamo, uno congelato
perché non era il momento opportuno, poi rimandato,
quasi dimenticato, infine donato ad una famiglia del
nord, mamma e papà dovevano lavorare e desideravano
tanto un figlio, sì, ma solo uno.
Io ho sempre saputo di te, perché mamma poi
si è pentita. A volte la vedevo che guardava
fuori della finestra, come a cercarti sui tetti, gatto
perduto che non saresti tornata con un fischio.
Siamo uguali, sorella mia, anche se mia madre e mio
padre - nostra madre e nostro padre - erano operai
e, a mia volta, ho sposato un metalmeccanico. Siamo
uguali anche se tu prenderai la laurea che a me non
è toccata.
Lo vedo dal rossore ogni volta che i miei occhi ti
fissano, da come volti lo sguardo se ti faccio una
domanda e sembra che nelle punte delle tue scarpe
stia tutto l'universo. Lo stesso accade a me, se a
chiedere sei tu. Genetica o ambiente? Chissà?
Certe condanne restano appiccicate anche dopo vent'anni,
anche se diventi un'altra persona. Solo io so quello
che tu sai, quello che soffri, quando la tua mano
trema, come adesso, quando stringi il telefono con
dita sbiancate, col palmo sudato, quando ti fai coraggio
e provi a raccontare la barzelletta che pareva così
facile, così raccontabile, prima che tutti
gli occhi ti si appuntassero contro, ti trafiggessero.
Annuisci, ti esce un filo di voce, mi dici: "Sai,
l'altro giorno sono passata in mezzo ad un capannello
di gente
" poi la voce si strozza, sbatti
le palpebre, troppo velocemente come una specie di
tic.
"Basta, basta", mormoro. Non voglio che
tu stia male, so cosa si prova, quando sembra di non
avere più niente da raccontare e che la tua
vita sia una scatola vuota, ma tu insisti, ormai vuoi
liberarti, hai capito che ho capito: "Ho perso
tutti gli amici così
"
Abbasso gli occhi perché sto arrossendo, ti
stringo a me. Se arrossisco non ammazzo nessuno e
vorrei dirtelo, anzi vorrei gridartelo, ma non ti
conforterebbe. Sei rigida, dura.
"Tu sei ancora in tempo", dico, "per
me è tardi, ma tu non ti arrendere. Mai."
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