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Bugie e fantasie
Cominciava con un piccolo prurito sulla punta del
naso. Era come una puntura di spillo che si allargava
in onde crescenti di formicolio. La carne si arrossava,
la pelle si tendeva e poi si arricciava in crespe
e nodi legnosi.
Trentadue anni e mezzo erano passati da quando Pinocchio
non era più un burattino di legno, però,
ogni volta che mentiva, il suo naso - quell'antenna
impertinente che la natura protendeva fuori della
sua testa - ancora si trasformava. Era sempre un evento
spiacevole ed imbarazzante.
L'ultima volta il fattaccio era accaduto sul locale
Firenze-Prato e Pinocchio aveva fatto il viaggio chiuso
nella toelette nell'attesa che gli passasse. Quel
giorno, ricordava, aveva sparato una balla all'uomo
seduto di fianco, esagerando l'abilità del
proprio cane da caccia.
Ma perché succedeva qui, in questa fredda sera
di Dicembre, mentre si pavoneggiava nel cappotto nuovo,
specchiandosi in una vetrina gravida d'addobbi natalizi?
Non aveva raccontato bugie a nessuno, era solo con
propri pensieri. Ma cosa aveva pensato esattamente?
Si sforzò di ricordare.
Dunque, aveva osservato un nuovo modello di computer,
infiocchettato come un pacco regalo, poi il palmare
a fianco, ed infine il piccolo robot parlante. Ah,
ora rammentava. Lo aveva paragonato ad un burattino.
Ecco i burattini del terzo millennio, aveva pensato.
Per fortuna io ormai sono un uomo in carne ed ossa.
Sono a posto, sono arrivato.
Tornò a guardarsi nella vetrina. Vide un bell'uomo
elegante sui quaranta. Era cambiato parecchio da quando
le sue scorribande con Lucignolo mettevano a soqquadro
il paese e facevano disperare il povero babbo. L'antica
struttura di frassino, a ben guardare, si era conservata
nelle giunture, un po' rigide per la sua età,
e nelle onde rade e scolpite dei capelli. Ma a tradirlo
davvero era sempre e solo il naso.
Indisciplinato e puntuto, pronto a trasformarsi in
legno nei momenti meno opportuni.
Come ora, con questo nevischio ghiacciato che ti tagliava
la faccia.
Si guardò intorno. Nessuno si era accorto di
niente, grazie al cielo. Era tardi, i negozi stavano
chiudendo.
Gli ultimi passanti rincasavano frettolosi col bavero
alzato contro la tramontana. Calcò il cappello
sugli occhi, poi si ficcò in un cinema di seconda
visione. Al buio avrebbe atteso che tutto finisse.
Coprendosi il naso con la mano, chiese un biglietto.
La cassiera alzò due occhi fissi e distratti
insieme. Aveva un'aria triste, la bocca piena di briciole.
Faceva tutt'uno col banco di formica dietro al quale
nascondeva la sua cena. Pinocchio distolse lo sguardo,
sempre più a disagio, e si rincalzò
ancora di più nel cappotto. Il freddo gli gelava
le ossa.
Entrò nella sala buia e si cacciò nell'ultima
fila. Davano un film di guerra degli anni cinquanta.
Vicino a lui c'erano un paio di pensionati intirizziti
ed una coppia di mezza età, che si baciava
con bramosia clandestina.
Allungò le gambe, cercò di rilassarsi.
Il naso non accennava a tornare normale, anzi, nel
gelo della sala, era l'unica parte del suo corpo ancora
calda.
Era la maledizione della fata, rifletté, quella
vecchia baldracca turchina che gli aveva fatto da
madre. Se davvero gli avesse voluto bene come diceva,
non l'avrebbe tormentato col ricatto della bontà.
Ogni buon'azione, un pezzo di legno in meno. Aiutava
una vecchietta ad attraversare nel traffico? Via un
dito.
Faceva l'elemosina sul sagrato della chiesa? Ecco
che al posto di un orecchio di legno, si ritrovava
della cartilagine molliccia.
Per conquistarsi tutto un corpo aveva faticato l'intera
infanzia, su su fino al terribile, meraviglioso, giorno
in cui perfino il suo pene di frassino aveva distillato
una bianca perla del tutto umana. Ma bastava un niente.
Nell'attimo in cui alterava il reale anche solo di
un piccolissimo scarto, doveva correre pentito a nascondere
l'ingombrante frutto della sua colpa.
Eppure, davanti alla vetrina dei computer, l'ingegner
Pinocchio non aveva detto nessuna delle sue solite
bugie. Non aveva gonfiato la potenza dell'auto, le
acrobazie del pene, le tette della segretaria. Non
aveva soffiato il progetto ad un collega.
Non aveva lusingato nessuno, non aveva fatto complimenti
ad arte per ingraziarsi i superiori. Non riusciva
proprio a capire dove poteva aver sbagliato.
Però cominciava a sentirsi stranamente bene.
La sala di proiezione era come un utero accogliente.
Lui era immerso nel lago di bagliori che piovevano
dallo schermo ed il calore gli si stava propagando
dal naso al resto del corpo. Strinse il pezzo di legno
fra le dita. Era come avere fra le mani una tazza
di caffè caldo, una stufa
accesa. Chiuse gli occhi. Rivide una bottega di falegname,
lontana nel tempo, profumata di trucioli e con un
tappeto di morbida segatura. Un uomo anziano intagliava
un ciocco. Canticchiava, allegro.
"Ti farò gli occhi e tu vedrai. Ti farò
la bocca e tu parlerai. Ti farò il cuore e
tu amerai."
Era stato un desiderio, un dono d'amore, una formula
magica.
Quattro lunghe ciglia di legno avevano sbattuto stupite,
una gamba era balzata giù e si era avvicinata
ciottolando, impaziente di riunirsi al resto del corpo.
"Ti chiamerò Pinocchio."
Il burattino di legno aveva sorriso, i tondi occhi
illuminati di malizia. Era un burattino allegro, terribile,
vivacissimo.
Geppetto, suo padre, lo amava proprio per le sue marachelle.
I primi anni della sua vita erano stati spensierati,
poi era venuta la consapevolezza della diversità,
il bisogno di apparire un altro. L'innumerevole sfilza
di bugie. Raccontava ai burattini di Mangiafuoco che
lui era figlio di un sultano. Vendeva l'abbecedario
per andare a vedere il teatro.
Magico teatro, pieno di maschere, trasformista e bugiardo,
fantastico, innocente.
Raccontava a Lucignolo che loro due non erano asini,
bensì nobili cavalli da corsa, mentre, preoccupati,
si tastavano le orecchie pelose nel tetro luna-park
del Paese dei Balocchi. In quella vita aveva portato
vestiti di carta fiorita e cappelli di mollica di
pane, s'era bruciato i piedi e se n'era fatti intagliare
un paio nuovi di
zecca da Geppetto, aveva imparato a mangiare bucce
e pan di feccia, aveva conversato col grillo parlante.
Ed aveva sempre Lucignolo con sé. Lucignolo.
Naso all'insù, occhi di pece, una ne fa e cento
ne pensa. Lucignolo attore, bugiardo, unico amico.
Quando Lucignolo era uscito dalla galera, tutti in
paese gli avevano voltato le spalle. Pinocchio per
primo, perché ormai dai suoi pantaloni spuntavano
rosee ginocchia di ciccia e tutti gli consigliavano
di star lontano dalle cattive compagnie. Pensa a studiare,
gli dicevano, pensa a tuo padre, pensa a farti una
posizione ora che sei un bambino vero, che non hai
più la testa di segatura. Così si era
trasferito a Firenze e Lucignolo era morto d'overdose
nel cesso di un bar.
Ecco dov'era il punto.
La più grossa delle bugie l'aveva detta a se
stesso. La bugia era il suo desiderio di essere per
forza come gli altri. Perché uguale è
bello, uguale è normale, uguale è vero.
Ma lui non era come gli altri. No, lui non era un
essere umano, era un burattino di legno. E non era
un ingegnere, era un attore. Doveva stare sul palco,
insieme agli altri burattini come lui.
Amava il teatro, amava Lucignolo e persino il Gatto
e la Volpe.
Amava anche la fata, ma solo quando gli appariva sotto
forma di lucida lumaca o di capretta azzurra.
Dallo schermo piombò su di lui una luce blu,
che circondò di un alone le sue mani. La presa
divenne una morsa, le dita si contrassero e formicolarono.
Pinocchio le guardò a lungo, stupito. Poi sorrise.
Erano tornate di legno.
Uscì dal cinema con l'andatura guizzosa e scricchiolante
della sua gioventù. Cantava. "Ti farò
il cuore e tu amerai". Passò davanti alla
cassiera. Si guardarono. Un grosso burattino di legno
dall'aria contenta, infagottato in un cappotto di
Versace, ed una donna di mezza età, con un
ammiccante baluginio turchino fra i capelli.
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