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Marta
ci vede
Ore tredici, silenzio rovente, canicola. Pensieri
come mosche in una giornata umida.
Mentre parcheggio all'ombra dei pini, mi rendo conto
di essermi spinto fino al mare. Da quanto non vengo?
Forse dall'ultima volta che ci ho portato Marta.
I pini esalano odore di resina riscaldata, di aghi
schiacciati sotto le ciabatte di gomma, di polvere.
Se fosse qui, Marta berrebbe l'aria con le narici
come una puledra, piegherebbe la testa di lato per
ascoltare, toccherebbe la corteccia degli alberi,
riderebbe se la resina le incollasse le dita, abbraccerebbe
il tronco per capirne l'età. "Questo è
proprio tanto vecchio", direbbe, "ne sento
l'energia. Gli alberi sono creature vive ed antiche."
Come due anni fa, in Sicilia. Sudava sotto il sole,
mentre visitavamo la Valle dei Templi. Io leggevo
le spiegazioni della guida e lei ascoltava, assorta,
rapita.
"E' assurdo, a che cazzo serve", pensavo,
ma lei era raggiante mentre allargava le braccia e
si distendeva sulle rovine del capitello, per afferrarne
l'ampiezza, l'asperità del tufo. "E' incredibile
cosa riuscivano a fare a quei tempi."
Mi sorrideva dietro gli occhiali da sole grandi e
neri. La fotografavo perché era lei a chiedermelo,
e intanto pensavo che quelle foto non le avrebbe viste
mai, non avrebbe saputo che il naso le si era arrossato,
che il petto le si era coperto di efelidi, che il
gelato le aveva macchiato la maglietta.
E' sempre così entusiasta di tutto, lei.
Mi faccio a piedi il viale fino alla spiaggia infuocata,
affollatissima, stringo gli occhi nella calura tremolante.
Quasi non vedo il mare, oltre le file degli ombrelloni,
ma c'è odore di salmastro, di abbronzanti,
di ghiacciolo, di scarpe abbandonate al sole.
Chiudo gli occhi, provo a sentire le cose come le
sente lei, ma la tristezza mi chiude la gola. Se fossi
un insetto, penso, vedrei il mondo attraverso occhi
dalle mille sfaccettature. Non sarebbe il mondo che
conosco io.
Mi spoglio. Gli slip neri possono sembrare un costume,
e comunque me ne frego. Cammino a lungo prima che
l'acqua mi arrivi al petto. Nei passi faticosi verso
il largo, rivedo mio padre che fa arselle col setaccio
grande, e mia madre col costume intero, i piedi larghi
e forti, le spalle fiere. Mi sento solo, come non
lo sono mai stato, solo con tutte le responsabilità.
Mi tuffo, l'acqua mi fa rabbrividire, avanzo a bracciate
verso il nulla, nuoto fino a che il bagnino non comincia
a fischiare per richiamarmi indietro.
Sono disperato, non c'è nulla che voglia fare,
nulla che ami, nulla che desideri.
"E' depressione, Gianfranco", mi ha detto
Roberto, che è medico ed anche mio amico. "Stare
accanto ad una moglie non vedente è difficile,
lo capisco. Ora ti segno delle pillole, ma tu fatti
forza."
"Maledizione, Roberto. Non mi servono farmaci.
Non sono depresso."
Roberto ha scosso la testa. "Pensa a Marta, Gianfranco.
E' cieca da dodici anni, dal giorno dell'incidente,
ma non ho mai conosciuto qualcuno con tanta voglia
di vivere. Lei ti ama, non dimenticarlo."
Marta mi ama. Sono fortunato. Quella sera guidavo
io.
Non riesco più ad alzarmi la mattina ed in
quest'acqua ci vorrei annegare.
Marta è cieca. No, non è vero. Marta
vede in un altro modo, vede col cuore, con l'anima,
con i sensi. Lei vede più di me, vede tutto
quello che io non so più vedere. Lei vede il
bene della vita che io ho perso.
Mi volto e torno a riva così veloce da sfiancarmi,
fino a che i miei piedi non toccano di nuovo la sabbia
piena di buche, di mulinelli, di tracine brucianti.
Piena di cose vive.
Mi rivesto senza nemmeno asciugarmi.
Chissà, magari, sulla strada del ritorno mi
fermerò in farmacia.
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