Giovani alla ribalta: Marco Amore
Il
Foglio Letterario - rivista e casa editrice non profit
che dirigo dal 1999 - nasce per scoprire e valorizzare
giovani di talento. Penso che l'abbiamo fatto e che
lo stiamo ancora facendo, senza trascurare i meno giovani
che abbiano qualcosa da dire e sappiano esprimere in
forma letteraria le loro idee. Ricordo Lorenza Ghinelli,
passata a Newton & Compton con Il divoratore (e
adesso La colpa), ma pure Claudio Volpe, candidato allo
Strega con Il vuoto intorno e adesso autore di punta
presso Anordest Edizioni. Non ci fermiamo (il noi non
è berlusconiano, vuol dire che questo lavoro
non lo faccio da solo!), molti giovani pubblicano con
Il Foglio Letterario e attendono una valorizzazione
critica e commerciale. La troveranno? Non lo sappiamo,
ma non è così importante. In fin dei conti
quel che conta è trovare una ribalta per esprimersi,
pur piccola che sia. Oggi approfitto di questo spazio
per presentare un giovanissimo autore non livornese,
che merita attenzione per l'impegno, la costanza e l'umiltà
con cui lavora alle sue creazioni. Si tratta di Marco
Amore, nato a Benevento il 9 maggio 1991, ex studente
del Liceo Classico Statale Pietro Giannone. La sua prima
esperienza in campo letterario risale all'età
di diciotto anni, un romanzo di cui non vuol parlare,
ha vinto alcuni concorsi, ma si sa che lasciano il tempo
che trovano, servono solo per mettersi alla prova. Scrive
racconti e poesie che presentano chiari riferimenti
classici, dimostrano voracità da lettore e omaggiano
maestri immortali come Shakespeare, Bronte, Hoffmann,
Poe… Il suo stile è classicista, zeppo di
in elementi descrittivi, intriso di un linguaggio ricercato,
a tratti desueto, sovrabbondante, gotico e barocco.
Non è mai banale, però. Questo mi fa dire
che - se troverà la trama giusta e una storia
degna di essere raccontata, forse un romanzo di formazione
- potrà darci delle grandi sorprese. Ho letto
molte cose incompiute di Marco, cercando - nei limiti
del possibile - di consigliare la strada giusta per
le sue creazioni, a mio parere quella (poco commerciale)
della poesia e della prosa lirica. Sono convinto che
troverà la sua strada. Per il momento presento
il suo racconto migliore, la creatura più compiuta
tra i tanti lavori che mi ha inviato negli ultimi mesi,
accettando critiche - cosa non comune - a volte sin
troppo dure. (Gordiano Lupi) |
ll
Foglio Letterario
Marco
Amore
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Zeitgeist
Replica
a un amico
Una
stanza. Ecco quel che ci occorre per il nostro racconto.
Basta una stanza. Non eccessivamente ammobiliata,
dal momento che troppi fronzoli fanno perdere il filo
del discorso, né luminosa oltre il necessario,
giacché la troppa luce intralcia il pensiero.
Una stanza di media ampiezza, con qualche quadro qui
e lì a combattere la monotonia della carta
da parati (magari scene silvestri frapposte a plumbei
litorali nordeuropei), un grosso guardaroba color
ebano, tre, quattro mensole leggermente inclinate
e stipate di libri sul cui frontespizio è facile
leggere nomi stranieri come Émile Durkheim,
E.T.A. Hoffmann, John Milton ecc ecc. associati a
nomi un po' meno oscuri come, che so, Alessandro Manzoni;
un letto sfatto e ancora caldo del tepore di un corpo,
certo non lontano; due comodini completi di abat-jour,
uno scrittoio chiazzato d'inchiostro, un canterano
sbocconcellato dai tarli, una vecchia seggiola cricchiante
di vimini e, non poteva essere altrimenti, un grazioso
tappeto bukhara rosso chermes. Ma forse ho esagerato:
devo eliminare qualcosa, o l'insieme risulterebbe
indigesto a un eventuale lettore. Ebbene, le mura
sono spoglie a eccezione di un solo dipinto. Niente
paesaggi stile Emily Brontë - altro nome curioso
stampato sulla copertina di uno dei tanti libri -;
niente brughiere velate di nebbia, terre torbose,
spiagge deserte. Niente alberi ingemmati dalla galaverna,
crepuscoli melanconici, burrasche o tempeste di sorta.
Si tratta di un lavoretto da poco: una serigrafia
di fine anni Novanta che mostra un grottesco omino
deforme. La notte stellata fa capolino dalle imposte
dischiuse. Contaminati da bruscoli d'argento, i fulgori
plenilunari tramutano la sagoma anzidetta in una turpe
chimera. Il brusio continuo di un climatizzatore sembra
l'unico trambusto a sciupare un religioso silenzio
ma, se si presta maggiore attenzione, è probabile
distinguere un rumore quanto mai fiacco, eppure udibile,
dalla foga della macchina. Un uomo, del tutto immerso
in chissà quali pensieri, sta fumando poggiato
contro il davanzale della finestra. Il rumore cui
mi riferisco è il sistematico soffiare della
sua bocca torva. Ha sopracciglia folte e spessi favoriti.
Il viso, lambito da Selene, non deluderebbe le aspettative
delle più esigenti fanciulle. Tiene i gomiti
puntellati al marmo, le mani aperte. Con una sottrae
e riaccosta un sigaro alle seriche labbra; con l'altra
culla un mento glabro e pronunciato .
Veste assecondando i dettami dell'epoca romantica:
il torace riempie una camicia dal colletto alto, morbido
e ripiegato in maniera asimmetrica; coi polsini lunghi
e stretti da cui penzolano evanescenti fascette di
lino. Sotto indossa pantaloni alla ussara, del tutto
spiegazzati, che assieme alla capigliatura crespa
gli conferiscono un'aria alquanto negligé.
Anche se non si nota, calza eminenti stivali scuri.
Spruzzi di fango rappreso violano il nero delle tomaie
e i puntali, di per sé già frusti, sono
ricoperti da una patina fulva. Il resto della sua
"toilette" giace sullo schienale della sedia.
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Indumenti umidi. Una marsina, una redingote blu. Un
cencio che non saprei definire. Avviluppati alla maniglia
di ottone dell'ingresso - quasi dimenticavo! - figurano
una coppia di guanti in cuoio glacé. I bordini
cotonati sgocciolano acqua piovana sul pavimento (plic,
plic, clop) e sul telaio dell'anta laccata avorio.
Gradualmente, l'acqua supera i margini della piastrella
e scorre a rivoli nelle fughe; dove viene osteggiata
dalla porosità della malta, quindi assorbita,
prima di raggiungere la testiera del letto. Mentre
ciò accade, e la puzza di tabacco bruciato
impregna l'ambiente e affumica i libri sulle mensole,
la rigida fisionomia dell'uomo si addolcisce fino
a cambiare. I suoi occhi divengono felini e sporgenti;
il grigio delle iridi - un grigio che richiama le
proprietà del piombo - si accende di un bagliore
glauco; il naso adunco si raddrizza a imitazione di
un modello ellenistico; la bocca si rimpicciolisce;
la prominente linea della mascella si assottiglia;
gli zigomi ben marcati affondano nella carne rosea
di gote in boccio; collo, braccia e gambe perdono
ogni traccia di rozza virilità… e così
via. Segue il dileguarsi di camicia, pantaloni e stivali.
Vediamo comparire al loro posto, contro la pelle lucida
e diafana, un corpetto in taffettà, una gonna
merlettata, un tablier di crêpe de chine broccato
d'oro e due minuscole scarpette con fibbie in madreperla
e fodera trapunta di fiori. Adesso il sigaro è
una cassetta VHS: The Opening of Misty Beethoven.
La redingote una cappa, la marsina uno scialle. Il
cencio si sfalda in foglie di salice, i guanti si
adattano ad accogliere dita affusolate.
Subito prende consistenza, dinanzi al nostro malcelato
stupore, uno spettro da fiaba. Questa donna, perché
di una donna si parla, possiede la grazia intrinseca
del cherubino. Cammina per la stanza con flemma eterea.
Sul capo, intrecciata alla chioma fluente, ha una
corona di ranuncoli e orchidee. Le code della nappa
di raso che le stringe in vita saltellano a destra
e a manca ad ogni passo.
"O woe is me," mormora con voce rotta l'apparizione,
"t'have seen what I have seen, see what I see!
"
Poi si accascia a terra, inerte. È morta. La
videocassetta ruzzola contro il muro, esplode in una
confusione di schegge. Fuori dalla finestra, il fuoco
fatuo dell'aurora profila le cime dei monti. Un gallo
canta il De profundis. Il cocchio del sole avanza,
pavesato di gramaglie; la notte batte in ritirata.
Tra l'armadio e il comò c'è uno spazio
vuoto, un fosco anfratto. La luce del giorno non lo
rischiarerà prima delle sei. Nascosta dalle
tenebre, una sfinge indugia acquattata in quel punto.
Di tanto in tanto frusta con la coda il gres porcellanato
delle piastrelle. Morta la donna, risolve di uscire
allo scoperto. Con le zampe leonine ne calpesta impassibile
la salma. Un indovinello le tesse ragnatele nel cuore,
su per la laringe; le si aggrappa all'ugola e la lingua
palpita irrefrenabile.
"Chi ha dormito nel letto?" sbotta dunque
la creatura. E un eco disumano riporta indietro la
domanda.
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Cfr. W. SHAKESPEARE, THE TRAGEDY OF
HAMLET, PRINCE OF DENMARK, Newton Compton ed., Roma
2007.
*Trad.: Me infelice, che ho visto quel che ho visto,
vedo quel che vedo!, monologo di Ofelia, atto III
scena I.
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