David Marsili, biologo e musicista,
a tempo perso scrittore
David Marsili
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Variamo
una nuova rubrica letteraria presentando un giovane
scrittore livornese che posso vantarmi di aver scoperto,
anche se - come diceva Franco Franchi - chi scopre per
davvero è soltanto la levatrice. Ma a parte le
contaminazioni cinematografiche di cui non riesco a
fare a meno, voglio presentarvi David Marsili, classe
1973, un biologo che si occupa di sicurezza sul lavoro
e di ambiente nel settore chimico. Musicista fallito
(ha fondato alcune band locali dalla fine degli anni
Ottanta senza molto successo), da alcuni anni si dedica
alla narrativa. Nel titolo dico - scherzosamente - a
tempo perso, ma in realtà lo fa in maniera professionale
e con buon successo di critica. Autore che nasce con
impostazione noir, riesce a descrivere i problemi del
quotidiano usando e contaminando i generi letterari.
Ha pubblicato i romanzi Viscere - L'indifferenza della
notte (Il Foglio Letterario, 2008) e Uomo di Tungsteno
(Il Foglio Letterario, 2011), ma anche diversi racconti
in antologie livornesi (Siuski, 2009; Presenze di spiriti,
2010; Sessoscritto, 2012) per Edizioni Erasmo e un racconto
con Perdisa Pop. Ricordiamo una sua breve novella vincitrice
del concorso letterario bandito da Il Tirreno. Sta scrivendo
un racconto di ambientazione piombinese per l'antologia
Raccontare Piombino, in uscita per Il Foglio Letterario.
I am the resurrection, in uscita per la nuova collana
Demian de Il Foglio Letterario (in brossura ed e-book),
è anche l'assaggio del terzo romanzo in lavorazione.
Pubblichiamo due brevi racconti inediti che David Marsili
ha voluto offrire ai lettori di Livorno Magazine.
La
situazione in pugno
- Dottore, sono tutti in sala. La stanno aspettando.
L'Amministratore Delegato si allentò leggermente
il cappio Burberry, e si diresse verso la finestra.
La segretaria ne approfittò per sbirciare sul
brogliaccio degli appunti del capo. Ghirigori e disegni
senza senso.
- Vada pure, Sheila. Arrivo subito.
Sheila si morse leggermente il labbro superiore e
si diresse verso la sala riunioni.
Nel
discorso dell'AD, i problemi diventavano problematiche,
i tempi tempistiche, i documenti documentazioni. Come
se l'aumento sillabico rendesse più importanti
e solenni gli argomenti, anzi le argomentazioni, per
giustificare la scelta.
La scelta, disse ancora, era improcrastinabile. Ne
andava del destino di tutti. E una volta presa, sarebbe
stata irreversibile.
- Bene, è ora di decidere. Questa sarà
la scelta che cambierà le vite di tutti noi,
e non solo.
Dopo aver ricevuto occhiate d'approvazione da tutti
i membri del consiglio, guardò la segretaria
alla sua destra e prese a tamburellare sulla ventiquattrore
di pelle, che la donna teneva in grembo.
- Sheila, tiri fuori i dadi.
- Vuole dire
i dati?!
- No, Sheila. Ha capito bene. Presto, non c'è
altro tempo da perdere. Dio non gioca a dadi. Io sì.
Il
piccolo cubo di legno fece eleganti moti di rivoluzione
sul tavolo di vetro. Barcollò incerto, rimase
sospeso su un vertice, poi riprese a piccoli giri
e andò a fermarsi in un angolo buio, nero liquirizia,
ai margini del piano. La mano dell'Amministratore
era ancora sollevata a mezz'aria, fiera e responsabile
della sua azione.
E tutti si sporsero in avanti, le cravatte afflosciate
sul tavolo, a cercare di leggere il loro futuro sulla
facciata superiore del dado, in piccoli dischetti
d'avorio sbiadito.
Percorso archetipo del suicidio (presso Charleroi)
Siamo
nel 2012, ma potremmo essere anche nel '56, almeno
per come me l'hanno raccontato.
Poche cose sono cambiate, i mattoni delle case sono
ancora anneriti dalla fuliggine, anche se le miniere
di Marcinelle sono chiuse da tempo. Come sempre, il
cielo si ferma ogni ora a pisciare.
Mi riparo sotto un portico, in una via deserta. La
pioggia è aumentata e le mie scarpe estive
imbarcano acqua. Mi viene da alzare lo sguardo verso
le facciate. Attraverso una vetrata scorgo dettagli
di una vita squallida. Solitudine e masturbazioni
contro lo sfondo di carte da parati deprimenti. Corridoi
angusti su terrazzini incompatibili con la vita, che
trasmettono solo la voglia di gettarsi di sotto una
volta per tutte.
Il Belgio è un paese che c'è sempre
un momento in cui sei solo.
Uno squarcio di cielo. Riprendo a camminare e, visto
il sole che di nuovo ha ripreso la scena, decido di
fermarmi per una trappista al tavolino di un bar.
Ne ordino una brune, mi siedo e aspetto. I piccioni
occupano tavoli vuoti, mentre accanto a me una donna
allegrotta e non troppo giovane ride, cinguetta e
si contorce tra due individui unti e non meno ubriachi.
Poi una vecchia esce dal bar tutta trafelata e attraversa
la strada; probabilmente non ha pagato il conto. Il
cameriere che mi ha appena servito le corre dietro.
Iniziano a urlare, a offendersi. Poi il cameriere
le sputa addosso e torna indietro, con gesti e parole
indirizzate al nulla.
Guardo con sospetto la mia birra.
La donna allegrotta e non troppo giovane ride. Assaggio
la birra e mi dà una sensazione di annacquato.
Due ragazze si siedono a un tavolo davanti a me, una
di loro si lamenta dei piccioni. Fa un gesto di fastidio
con la mano.
"Ho paura degli uccelli" dice alla sua amica.
"Anche di quelli di notte?" commenta ad
alta voce la donna allegrotta e non troppo giovane.
I due uomini unti se la ridono grassa.
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Pago e mi allontano. Sento qualche risata alle mie
spalle, ma non mi volto. Non voglio grane.
Salgo verso una strada che sembra promettere qualcosa
di meglio. Sul cornicione di un supermercato, ragazzi
suonano musica elettronica. La cosa mi piace, mi fa
sentire meno solo. Il cielo della Vallonia, però,
ha ancora voglia di pisciare. Lo scroscio arriva forte,
i ragazzi staccano i cavi e spariscono in una finestra.
La strada è di nuovo vuota. Ogni tanto passa
qualcuno; gente brutta, grottesca. Denti erosi dall'acqua
povera di calcio.
La piazza centrale è un acciottolato senza
soluzione di continuità tra il marciapiede
e la strada. Gli automobilisti sfrecciano in traiettorie
improbabili; tra i cartelli non ce n'è uno
a piombo.
Camminando per le vie periferiche, la costrizione
al petto aumenta. Nelle vetrine, sporche e senza illuminazione,
sono esposti oggetti casuali. Cose rotte, scherzi
di carnevale fuori stagione e oggetti con riferimenti
sessuali fuori da qualsiasi stagione. Oltre i vetri
di quelle botteghe sinistre, non ti stupiresti di
trovare bambine legate e nude e denutrite. Forse è
per questo che non ci sono negozi di giocattoli, in
giro. Una forma di pudore verso le Marcinelle note
e quelle mai conosciute dalla stampa.
Immagino le vie d'uscita da una nascita in questa
città. Diventare pedofilo, serial killer o,
ancora peggio, farsi rasare a zero facendosi lasciare
solo un disco di capelli in cima al cranio da uno
di questi parrucchieri marocchini di periferia. Oppure
studiare economia o chimica e fuggire.
Invece, in questo strano percorso di vita, io ci sono
arrivato ora, e il fatto è che ci devo stare
almeno due anni. Senza una donna, senza un amico,
e con il fardello che mi porto addosso. Inizio a meditare
seriamente per una quarta via d'uscita.
Scendo
di nuovo verso la stazione. Sulle vetrate della cupola
vedo la scritta: CHARLEROI SUD. Poi cambia ancora
la luce. Arriva un nuovo scroscio, questa volta più
forte. Charleroi abSUrDe, penso io. Tentenno un attimo:
attraversare la Sambre o cercare un riparo?
Corro verso la tenda di un bar. Mi fermo al riparo
dell'acqua. Una nuova tristezza mi assale. I calzini
inzuppati m'imprigionano i piedi. Entro nel bar per
riscaldarmi un po'.
L'atmosfera è strana: le luci sono deboli,
i tavoli distanti, divisi da separé di legno
scuro. Mi chiedo quale sia la costante. Ecco, sono
tutti uomini. Ora realizzo i due sulla porta. Uno
abbraccia l'altro, un tipo sinistro con il capo coperto
dal cappuccio di una felpa e vistosi herpes intorno
alla bocca.
Ci mancava anche un bar di finocchi.
Niente di personale, ma preferisco uscire nella pioggia.
Me la prendo tutta in faccia, nei vestiti, nelle scarpe.
Attraverso il ponte sul fiume che sembra un canale
industriale. Mi aggrappo alla ringhiera, mi sporgo
fuori con tutto il busto. La pioggia mi passa sul
collo, sulla schiena, entra nei vestiti, ovunque.
Penetra in me e mi diluisce. Sono tutt'uno con il
fiume. Basta solo un gesto.
Un
pianto leggero. Un pigolio. E' un segnale debole,
ma è quello che mi riporta allo stato solido.
Ruoto la testa verso destra. C'è una figura
scura: una donna avvolta in un mantello impermeabile,
seduta su un grosso trolley nero opaco. Non riesco
a vederle la faccia. E' piegata in avanti, la donna.
Sembra che pianga.
Mi avvicino. Mi abbasso per farmi vedere. Ha capelli
corvini, quasi blu, e il trucco sfatto; sembra una
bella donna. Appena mi vede la sua espressione cambia.
Allarga le braccia e mi stringe a sé.
"Gerard, oh Gerard."
"Signora
Io non."
"Zitto Gerard. Non dire niente. È stata
tutta colpa mia."
Mi prende il viso con le mani e poi mi infila la lingua
in gola. Sa di liquirizia. Provo ancora a staccarmi
ma il suo corpo ora aderisce perfettamente al mio.
Mi prende una mano e la porta sulla sua coscia. Sento
la scanalatura di un autoreggente.
Non dico niente, è vero, è solo colpa
sua e sto al gioco, non è poi così male
essere questo Gerard. Gettarsi nel nero di quella
donna invece che in quello della Sambre, per farsi
mangiare gli occhi da pesci incommestibili e farsi
ritrovare in qualche fosso di provincia ancora più
triste.
Senza contare, infine, che ha anche smesso di piovere.
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