

Rione Venezia

Ponte Santa Trinità

Ponte Santa Trinità

Ponte Santa Trinità

Viale Caprera
Erta degli Arri'siatori

Viale Caprera

Viale Caprera

Viale Caprera

Viale Caprera

I barconi sugli scali delle ancore
Otello
Chelli:
settantasei anni, livornese verace, nato nel
quartiere della Venezia, il più caratteristico
della città, mai frequentata una scuola,
quindi autodidatta, giornalista pubblicista,
ha scritto alcuni libri; Livorno, il Mediterraneo
in cucina (prima edizione 1989, 40.000 copie),
La storia del Ponce 1995), La storia del cacciucco
(1996), una edizione delle due storie nel 1999.
Nel 1998 il romanzo La stirpe di Morgiano, nel
2002 Il Moletto - Una storia di mare e di pesca
- stesso anno: Livorno, la ricca Città
delle Nazioni (35.000 copie)
Consigliere comunale eletto quale indipendente
nelle liste di Rifondazione, ex sindacalista,
ex dirigente del Pci, radiato dopo vent'anni,
nel 1969 per la sua appartenenza alla rivista
il manifesto, pubblica raramente se non su richiesta,
perché non intende "raccomandarsi"
alle case editrici. Ha spedito questo racconto
breve che fa parte di una "collana"
di 50 racconti che tiene nel suo computer con
una ventina di romanzi che consegnerà
ai propri figli e nipoti quale unico lascito,
di carattere intellettuale, non possedendo nemmeno
la casa dove abita. |
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IL ROSSO E SELICA
Era
bastato uno sguardo tra il "Rosso" e Selica,
durante una delle tradizionali e numerose cene collettive
che nelle sere d'estate si consumavano sui larghi
marciapiedi del viale Caprera, mettendo assieme tutto
il pescato di una giornata, altri alimenti e gli indispensabili
fiaschi di vino rosso del Chianti, contenuti nelle
madie delle famiglie, più numerosi dei fili
di pane. Si trascorreva una serata in allegria, mangiando,
bevendo, cantando sfottenti stornelli, romanze d'amore
e famose canzoni sovversive, il rione lo era da sempre,
la gente aveva nell'anima sentimenti carbonari prima
dell'Unità e nikilsocialisti subito dopo, soprattutto
quando Vittorio Emanuele II aveva cancellato lo status
di "porto franco" alla città più
garibaldina d'Italia insieme a Brescia e Bergamo,
gettando a spasso centinaia di facchini del porto,
navicellai e barrocciai. In quegli anni era ancora
attiva la "Mano Nera", nata fra i veneziani
per vendicare con il coltello i torti subiti dalla
loro gente. Se la sera era umida si accendeva un bel
fuoco e ci si sedeva tutti attorno consumando la cena,
"buttando a pagliolo" i fiaschi , mentre
il Topo, già alticcio, un bicchiere pieno a
metà posato ai suoi piedi, dava il via alla
festa in qualità di mago della chitarra, nonostante
non conoscesse una nota musicale. Con le sue arie
faceva cantare la notte e rendeva più brillanti
le stelle, aiutato dalla voce di Renata, popolana
tipica, tonalità d'angelo che, se educata e
lanciata sui palcoscenici, sarebbe diventata più
celebre delle più acclamate e corteggiate stelle
del melodramma.
Il "Rosso" era una figura bizzarra, fuori
fase in un quartiere tipico e popolare come quello
della Venezia Nuova, anche se era nato in una delle
antiche case della Tura, la zona che dalla chiesa
di Crocetta si proiettava fino al Ponte di Santa Trinita,
accucciato sotto la mole corrusca della Fortezza Vecchia.
Tornato a casa dopo anni e anni di avventurose peregrinazioni,
durante le quali aveva fatto fortuna, nel suo rione
ritrovava ogni giorno i ricordi di una fanciullezza
dura, ma allegra, indimenticabile. Giornalista e scrittore
di larga fama, ad ogni uscita di un suo libro veniva
osannato dalla critica. Eppure era uno di loro, nato
fra questa gente povera e ostinata, generosa e impulsiva,
discendente di una delle famiglie "storiche"
di questo rione autentico angiporto, abitato da gente
che all'orgoglio delle proprie idee, univa grande
fierezza ed era facile alla zuffa, al coltello e al
revolver, usati spesso per difendere il proprio onore
o gli irriducibili ideali scaturiti dalla rivoluzione
francese e dalle idee di Mazzini, Garibaldi e Carlo
Marx. In gioventù il "Rosso" era
stato un "risi'atore" tra i migliori, uno
dei componenti la famosa carovana di Silenzio e faceva
parte di quella ciurma leggendaria che a bordo di
un gozzo mastodontico, prendeva il mare con qualsiasi
tempo e a forza di remi si recava incontro ai legni
diretti verso l'ansa sicura del porto di Livorno.
Spesso questa barca possente oltrepassava anche la
Meloria per contendere e strappare alle altre ciurme
il diritto allo scarico e al carico delle merci, arrembando
quasi le navi in arrivo, come facevano i saraceni.
In questo modo conquistavano il diritto di pilotarle
nel sicuro accosto della Darsena Vecchia e compiervi
le indispensabili operazioni di manipolazione delle
merci, fornitura d'acqua e viveri, soprattutto verdure,
indispensabili ai marinai per combattere lo scorbuto.
Un modo periglioso e incredibile di guadagnare il
pane quotidiano per la famiglia, ma in quei tempi
il mestiere del "risi'atore", seppure molto
pericoloso, non dava solo il pane, ma anche un certo
benessere, dignità, ammirazione e autorevolezza
tra la gente, ben oltre i confini del quartiere.
Il "Rosso" non aveva parenti. Morti i genitori,
dopo qualche anno i suoi due fratelli erano scomparsi
in mare, una sorella, la sua prediletta, si era innamorata
di un uomo sposato e gli aveva ceduto senza sapere
della condizione di lui. Abbandonata e incinta, si
era buttata giù dal ponte del Porticciolo e
le fredde acque invernali dei fossi l'avevano deposta,
dura come il marmo, ma sempre bella, là, ai
piedi della Fortezza Vecchia, sulla sabbia del cantierino
disteso sulla parte finale della Tura, laddove i calafati
costruivano e riparavano i navicelli, quei barconi
enormi, neri e silenti al passaggio tra le case, sui
quali si caricavano le mercanzie per portarle dalle
navi ai fondaci e viceversa, attraverso la fitta rete
dei fossi fatti costruire appositamente dai Medici,
una autentica ragnatela che s'intreccia nel famoso
"Pentagono" del Buontalenti.
Il giovane, chiuso in se stesso, il volto scolpito
come uno scoglio dalle onde, aveva seppellito la sorella
nel sepolcreto della chiesa, Padre Saglietto, leggendaria
figura di monaco trinitario, sempre schierato accanto
ai suoi parrocchiani, anche ai "senzadio",
si era opposto alla volontà dei pii frequentatori
della sua parrocchia di seppellire la bellissima Benedetta
nello spoglio "campo dei suicidi" e aveva
concesso questo privilegio alla sventurata fanciulla
buona credente e caritatevole in modo evangelico.
Rimasto solo al mondo, il giovane si era imbarcato
su un legno di Marsiglia e era scomparso. Sei mesi
dopo il corpo di Amedeo, il facoltoso commerciante
che, ingannandola, si era preso sua sorella per poi
abbandonarla vilmente, venne trovato sotto la Voltina
con un lungo coltello piantato in mezzo al cuore.
Era un coltellaccio della Provenza, con una punta
capace di forare la pelle d'un orso e un filo da autentico
rasoio. "Un arma micidiale" - aveva dichiarato
il Delegato di polizia.
Si seppe qualche tempo dopo, ma la nave non si era
registrata e nessuno poté provare niente, anche
se furono in molti a sussurrarlo, che il brigantino
di Marsiglia avesse fatto sosta per un'intera nottata
a Bocca d'Arno, l'equipaggio aveva cenato dal Ghingheri,
nella trattoria di legno costruita su palafitte piantate
in riva al grande fiume, proprio sulla foce, rifugio
di pescatori e contrabbandieri, ma l'oste smentì
recisamente il fatto e del resto, nessuno in Venezia
e in città, aveva visto il "Rosso".
Quindi "si trattava di un evidente abbaglio"
- concluse lo stesso Delegato che dalle autorità
francesi aveva saputo come la nave, nella stessa notte
dell'omicidio, si trovasse all'ancora nel porto di
Bastia, da dove era salpata per Barcellona.
Viaggi in tutti i porti del mondo, esperienze incredibili
e fantastiche, il giovane, intelligenza pronta, agile
e forte, aveva trovato il tempo di imparare a leggere
e a scrivere, apprendere una miriade di lingue e di
dialetti e si era fermato per tre anni nelle terre
algerine, viaggiando sulle roventi sabbie del Sahara
fra predoni berberi e mercanti beduini, raggiungendo
con le loro carovane e nelle loro scorrerie, i monti
dell'Atlante e tutte le oasi fino al verde Niger.
Si era arricchito e quando ritornò in Italia
sbarcando a Genova, invece di recarsi a Livorno proseguì
per Milano. Ad Algeri aveva conosciuto il proprietario
del più importante giornale italiano e durante
il viaggio verso il porto ligure era nata tra i due
una duratura amicizia. Il "Rosso" aveva
parlato delle sue peregrinazioni al potente uomo d'affari
e questi, ascoltando le incredibili avventure narrate
con sciolta parlantina e una vasta conoscenza, era
rimasto affascinato e aveva proposto a quell'uomo
ancora giovane, il volto bello, di cuoio per il sole
assorbito sul mare e nel deserto, di scrivere alcuni
lunghi reportages, iniziando a fare l'inviato all'estero
per il suo giornale. Così il "risi'atore"
veneziano si trovò a viaggiare per paesi lontani,
frequentare uomini di stato, politici, industriali,
inventori, capi di tribù mongole, indiane,
cinesi e africane, ma sopratutto, entrò in
contatto con molteplici culture e tradizioni, arricchendo
ulteriolmente un bagaglio di conoscenze già
vasto.
A Milano si era invaghito, corrisposto, di una nobildonna
di famiglia risorgimentale, si erano sposati, lei
gli aveva dato due figli, ma le peregrinazioni del
marito, le lunghe assenze, l'avevano infine decisa
a chiedere la separazione. La sua ricchezza era tale
da non farle richiedere al "Rosso" nemmeno
una lira per il mantenimento dei suoi figli che tenne
lontani dal padre, per loro sempre più uno
sconosciuto.
Alla fine di un lungo viaggio in Cina e in Mongolia,
il famoso scrittore era ormai giunto al suo trentanovesimo
anno di vita, stanco di viaggiare per tutti i continenti,
aveva persino seguito la folle e stupenda corsa automobilistica
"Parigi - Pechino", si mise a scrivere,
quasi per scherzo un libro di avventure e il successo
fu strepitoso, di conseguenza egli ne scrisse altri
e, in breve, divenne immensamente ricco, di quattrini
e di fama. La ex moglie, il suo tentativo di riconciliarsi
con lei era fallito, dopo alcuni mesi si era trasferita
negli Stati Uniti, dopo aver sposato un ricco industriale
dell'automobile ed i suoi figli erano ormai perduti
nella società dorata degli "States"
A quel punto, evitando le allettanti offerte della
ricca Milano, irrequieto e stanco di vivere la vita
degli opulenti salotti intellettuali di grandi città
europee, decise di ritornare a Livorno, nella sua
Venezia, il che avvenne quando di anni ne aveva quarantatre.
Eppure al "Rosso" non se ne davano più
di una trentina e quel suo volto bruciato dal sole
di cento paesi diversi, sembrava il volto di un fanciullo,
soprattutto per la luce che illuminava i suoi occhi
di ghiaccio.
Acquistò una bella casa al primo piano di un
palazzo signorile sugli Scali delle Ancore e dalle
sue grandi finestre dominava l'intero "fosso
reale" dell'antico quartiere e poteva ammirare
lo spaccato bellissimo delle vetuste case e dei palazzi
seicenteschi. Alla finestra del suo studio, come un
dipinto di grande artista, si mostrava ai suoi occhi
il fosso dominato dalla Chiesa di Santa Caterina dei
Domenicani, il palazzo granducale, detto de il Refugio,
la cui facciata dava sul viale Caprera e la bellezza
di Palazzo Rosciano. Se cambiava direzione al suo
sguardo, il dipinto si trasformava e ad apparire era
la mole familiare della Fortezza Vecchia, sovrastante
l'intero rione con l'Erta degli Arrisi'atori, autentica
terrazza lanciata sul porto e sul quartiere, mentre
davanti a lui si ergeva l'edificio detto de il Paradisino
e poteva vedere anche uno scorcio della chiesa di
"Crocetta", quella cara al suo cuore dove
spesso si recava per i suoi muti colloqui con l'amata
"sorellina". Dalle finestre della casa sentiva
con piacere il brusio della vita operosa dei veneziani,
il chiacchiericcio e le battute dei facchini del porto
e dei navicellai che, seduti sulla spalletta del ponte
sottostante che, dolorosamente, gli ricordava il suicidio
della sorella, aspettavano una chiamata da qualche
banco per recarsi a "fare la giornata".
Ascoltava con sottile piacere l'argentino suono delle
campane, soprattutto quelle di San Ferdinando, la
sua "Crocetta", la chiesa della sua fede
fanciulla, cresciuta all'ombra della torre campanaria
sotto la quale era venuto alla luce e spesso ascoltava
il suono argentino di una canzone cantata da una delle
donne affacciate alle finestre a chiacchierare o stendere
lunghe file di panni ad asciugare. Nelle ore di quiete,
mentre sedeva alla sua scrivania scrivendo qualche
storia, sentiva il fruscio dolce del passaggio di
qualche navicello e non sapeva resistere, affacciandosi
ad ammirare il lento avanzare del grande barcone nero
sulle calme acque del fosso reale, sospinto dalla
pertica usata da un solo uomo che camminava in su
e giù sul passatoio, spingendo quella flessibile,
lunga pertica rotonda, capace di dimostrare la giustezza
della frase di Archimede: "Datemi una leva e
vi solleverò il mondo."
Nel rione nessuno aveva dimenticato il figlio di Alceste
e Filomena, il fratello della sventurata Benedetta
e di quei due ragazzoni, uno morto alle Bocche di
Bonifacio, l'altro a Capo Horn. Il "Rosso"
venne quindi accolto con affetto, rispettato per ciò
che era diventato, ma soprattutto, perché sul
corpo della sorella aveva pianto silenziosamente,
senza mostrare lacrime, mentre il dolore aveva invaso
l'anima sua insieme alla glaciale calma con la quale
aveva preparato la sua vendetta. Impassibile, nessuno
lo aveva sentito profferire minaccia alcuna, chiara
od oscura. Era un veneziano verace lui e aveva agito
con l'intelligenza e la freddezza di un uomo vero
e questo nessuno, nell'antico quartiere, lo aveva
dimenticato.
Quella sera, come dicevamo all'inizio di questa storia,
bastò uno sguardo tra il "Rosso"
e Selica, una splendida donna snella e flessuosa come
un giunco e dal volto che, con quegli occhi profondi
come la notte, i capelli d'ebano e la pelle leggermente
mora, la faceva discendere dal miscuglio di razze
arrivate in questo quartiere nei secoli seguiti alla
promulgazione delle leggi granducali, dette Livornine.
Un amalgama dalla quale era uscito il tipico livornese
verace, nelle cui vene scorreva un misto di sangue
arabo e nordico, orientale e anglosassone.
Fu come una scintilla che incendia una foresta e i
due seppero immediatamente come le loro vite si fossero
intrecciate senza scampo. Era sicuramente amore. Non
il trepido e puro sentimento tante volte cantato nei
libri e in moltissime leggende, no, il loro non era
uno di quei sentimenti fatto di candore e nascosti
tremori, quasi sempre platonici, vissuti su timidi
sguardi e trepidi sospiri. I due, lo seppero subito,
nei loro occhi non c'era niente di poetico, ma l'incontrarsi
di due fuochi violenti e inestinguibili, lo scontro
di due destini, quasi sempre distruttivo.
Si avvinghiarono in un abbraccio frenetico, non appena
la serata ebbe termine, due ore dopo la mezzanotte,
nel portone della casa di lei, in un casamento situato
nella strettissima via delle Acciughe, di fianco al
nobile Palazzo Rosciano. Selica si era avviata, sola,
verso casa; lo Svelto, Remigio Saettini, suo marito,
era uno dei più conosciuti capovoga della città
ed era sceso in mare di buon'ora per raggiungere una
"norvegina", che Pistola (la Venezia è
sempre stata un quartiere dove abbondano i soprannomi),
il suo avvistatore più bravo, gli aveva segnalato.
Quando Selica dette la buonanotte all'ormai assonnata
compagnia, era l'ultima del suo casamento ad andarsene.
Quegli occhi da zingara, neri come un cielo notturno
senza stelle, si erano fermati per un attimo solo
in quelli del "Rosso" e nessuno vide il
messaggio ch'ella gli inviava. Anche lui salutò
e si diresse al ponte, ma, dopo un rapido sguardo
in giro, scantonò furtivamente verso Palazzo
Rosciano, inoltrandosi nel buio della stradina dov'era
la casa di lei.
Dietro il portone semiaperto la donna lo stava aspettando
senza dare un respiro, ma l'uomo aveva occhi di gatto
e, allungando le mani, l'afferrò per le spalle
e se la strinse al petto, poi le schiacciò
le labbra di corallo con le sue e la lingua rapace
iniziò a frugarle dentro la bocca che sembrava
un forno, mentre le mani, come artigli, afferrarono
il petto di lei, strinsero quei seni soffici e rotondi,
eppure duri come il granito, poi calarono sul grembo
e le dita s'introdussero nella rotondità delle
sue cosce, inoltrandosi nel soffice vello che le adornava,
accarezzando le delicate membra frementi tra l'inguine
e il pube scoperto, perché lei, nell'attesa,
si era strappata di dosso le candide mutande.
LA LETTURA E' RISERVATA AD UN PUBBLICO ADULTO.
PER CONTINUARE Fai richiesta a mezzo mail a redazione.LImagazine@tiscali.it
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inviare il racconto formato pdf.
La
Redazione di Livorno Magazine ringrazia l'amico Otello
Chelli della gentile concessione a pubblicare questo
suo racconto carico di emozione e sentimenti di ogni
genere, con un'ambientazione, quasi surreale, memoria
storica della Città di Livorno.
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